ROMA - Articolo di approfondimento pubblicato su Welforum.it il 12 gennaio 2024
Nella realizzazione di opere e servizi la pubblica amministrazione (Pa) tende sempre più a esternalizzare l’attività. Piuttosto che agire da sola, la pa si rivolge a imprese private, con cui instaura un rapporto di scambio: la pubblica amministrazione remunera i soggetti di cui si avvale e riceve come “corrispettivo” la fornitura dei servizi necessari o la gestione di beni comuni. La relazione contrattuale non si colloca, tuttavia, su un piano ugualitario: la pubblica amministrazione mantiene una posizione di preminenza, esemplificata dal potere di determinare l’accesso e la selezione degli aggiudicatari, all’esito delle procedure di gara stabilite dalla legge.
A questo modello non sfuggono gli enti del Terzo settore. A seguito della normativa europea sulla concorrenza e delle politiche di austerità adottate dopo la crisi del 2007-08 (Borzaga et al 2023), i rapporti tra pubblica amministrazione ed enti del Terzo settore sono stati tradizionalmente impostati nelle forme dell’appalto di servizi in regime di concorrenza. In tal modo, gli enti del Terzo settore si sono trovati ad agire in un contesto potenzialmente assai competitivo, spesso rivestendo il ruolo dello “sfavorito” nel confronto con imprese ben più strutturate.
Questa scelta politica, principalmente votata al risparmio dei costi e al favore per le pratiche concorrenziali, porta con sé alcune conseguenze problematiche. Per un verso, gli enti del Terzo settore hanno visto compressa la loro capacità di iniziativa, specialmente nel caso delle piccole realtà che sono immediata espressione della società civile di piccole dimensioni, come, per esempio, le organizzazioni di volontariato. L’esito più drammatico si coglie, però, sul piano dei bisogni elementari della comunità civile. La frequente esclusione dei piccoli enti del Terzo settore dal rapporto con la pubblica amministrazione impedisce, infatti, di “mettere a reddito” il patrimonio di informazioni e conoscenze da loro maturato nella quotidiana esperienza “gomito a gomito” con le persone. Né questa competenza e vocazione può essere rintracciata nell’attività di un’impresa, abitualmente orientata da logiche di profitto che mal si conciliano con situazioni nelle quali domina la povertà, la disabilità o la necessità di integrazione sociale.
Queste osservazioni sono alla base del timore che il paradigma tradizionale, votato all’efficienza dell’azione amministrativa, non sia in grado di adempiere ad alcune istanze della comunità civile. Preoccupazione che è ancor più fondata se si considerano gli esempi virtuosi di cui è capace il modello della collaborazione. Pensiamo alla pandemia. Nelle fasi più concitate, quando il virus era ancora poco “codificato” dalla medicina e le persone non potevano lasciare le proprie case, la necessaria assistenza e connessione tra la gente è stata principalmente fornita dagli enti del Terzo settore.
Così, di fronte al valore aggiunto di queste pratiche collaborative e a bisogni elementari che diventano sempre più urgenti e complessi, all’interno del modello concorrenziale si è aperta una “breccia”.
Il codice del Terzo settore ha, infatti, previsto rapporti di collaborazione tra pubblica amministrazione e soggetti privati che superano la logica dell’appalto in regime di concorrenza per adottare un modello di partnership, nel quale pubblica amministrazione e privati progettano e realizzano su un piano paritario gli interventi necessari per rispondere alle esigenze più decisive della società civile. Secondo la formula coniata da una celebre sentenza della Corte Costituzionale (Corte cost., n. 131/2020), questo approccio è abitualmente identificato con l’espressione “amministrazione condivisa”.
La scelta del legislatore si radica nel principio di sussidiarietà orizzontale, sancito dall’art. 118, co. 4, della Costituzione: lo Stato, le Regioni e gli altri enti locali “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. I soggetti privati individuati dal codice del Terzo settore per svolgere con la pubblica amministrazione attività di interesse generale - come la sanità, l’assistenza, l’educazione e l’integrazione sociale - sono gli enti del Terzo settore. Avendo come scopo esclusivo l’utilità sociale e rinunciando alla distribuzione degli utili, gli enti del Terzo settore sono i soggetti più adeguati a condividere l’esercizio di una funzione pubblica.
Non sono mancati, per la verità, interventi che hanno svilito la portata dirompente dell’innovazione contenuta nel codice del Terzo settore, limitando le forme di collaborazione tra pubblica amministrazione ed enti del Terzo settore solo ai casi di servizi resi gratuitamente. La Corte costituzionale, di contro, è stata molto chiara: le diverse forme di amministrazione condivisa costituiscono un’alternativa autonoma “a tutto tondo” rispetto all’affidamento dei servizi sociali tramite lo svolgimento di una gara e la conclusione di un contratto di appalto. In questa prospettiva, l’innovazione del codice del Terzo settore non rappresenta una deroga al sistema degli appalti, ma configura un tipo diverso di rapporto con la pubblica amministrazione, riservato a enti portatori dei medesimi interessi collettivi che animano l’azione pubblica (Amato 2022). Il principio espresso dalla Corte costituzionale ha trovato conferma dal punto di vista normativo anche nell’art. 6, comma 1, dlgs 31 marzo 2023, n. 36, che ha emancipato gli strumenti di amministrazione condivisa dal campo applicativo della disciplina sui contratti pubblici.
Esaminando più da vicino il modello, la Corte costituzionale ha individuato il fondamento dell’amministrazione condivisa nella “convergenza di obiettivi” e nella “aggregazione di risorse pubbliche e private” per la “programmazione e progettazione in comune” di iniziative solidaristiche da parte della pubblica amministrazione e degli enti del Terzo settore (Corte costituzionale, n. 131/2020). Le affermazioni della Corte costituzionale echeggiano le espressioni del codice del Terzo settore. Le più importanti forme di partenariato tra pubblica amministrazione ed enti del Terzo settore previste dalla legge sono la co-programmazione e la co-progettazione. La co-programmazione è volta a individuare (1) i “bisogni da soddisfare”, (2) gli “interventi a tal fine necessari”, (3) le loro “modalità di realizzazione” e, infine, (4) le “risorse disponibili” (art. 55, comma 2, codice del Terzo settore). La co-progettazione è volta alla definizione e alla realizzazione di “specifici progetti di servizio o intervento” per soddisfare i bisogni eventualmente individuati nella fase di co-programmazione (art. 55, comma 3, codice del Terzo settore). Attraverso la co-programmazione, dunque, la pubblica amministrazione e gli enti del Terzo settore si “siedono insieme al tavolo” per definire da un punto di vista progettuale le esigenze emerse in determinati ambiti della società civile e le possibili azioni da realizzare per soddisfarle. La co-progettazione rappresenta, invece, un procedimento al termine del quale la pubblica amministrazione e gli enti del Terzo settore elaborano specifici interventi per la risoluzione dei problemi sociali riscontrati e stipulano una convenzione per disciplinare le attività concordate. Seppure la normativa non preveda che la co-progettazione segua necessariamente ad una fase di co-programmazione, le forme collaborative sembrano essere pensate come due procedimenti tra loro complementari, dal momento che il primo ha vocazione programmatica, mentre il secondo ha natura operativa.
La co-programmazione e la co-progettazione costituiscono un’innovazione sociale anzitutto nel metodo. Quando decide di ricorrere all’esterno per assolvere al proprio compito, la pubblica amministrazione si pone, come già ricordato, in una posizione di preminenza nei confronti dei privati: è il soggetto che identifica la direzione in cui andare, le risorse da utilizzare e cerca dei fornitori, mediante lo strumento dell’appalto. Con il modello dell’amministrazione condivisa, invece, pubblica amministrazione e privati possono collaborare in un rapporto “tra pari” nell’identificazione del bisogno a cui rispondere e delle strategie per rispondere a questo bisogno. In quest’ottica il Terzo settore non è un semplice fornitore di servizi che presta la propria attività sulla base di un contratto di appalto; è, invece, protagonista - insieme alla pubblica amministrazione - delle scelte relative alla programmazione (e cioè delle politiche e delle strategie per realizzare un servizio che risponda a un bisogno delle persone) e alla progettazione (e cioè all’individuazione degli strumenti concreti che consentano di realizzare quanto è stato programmato).
Ponendo una modalità nuova nel ragionare sui bisogni delle persone e sui mezzi che possono servire per il loro soddisfacimento, l’amministrazione condivisa rappresenta la possibilità di alleviare le criticità emerse nell’attuale fase storica, valorizzando il contributo che sia la pubblica amministrazione che il Terzo settore possono offrire. La pubblica amministrazione può avere le risorse che mancano al Terzo settore, mentre quest’ultimo può con maggior puntualità aiutare la prima a individuare i bisogni e gli strumenti per farvi fronte. Non solo: la pubblica amministrazione può prestare alla società civile la propria reputazione e può ridurre i costi di coordinamento che tradizionalmente ostacolano il perseguimento di una soluzione congiunta tra una pluralità di enti del Terzo settore.
Un esempio che aiuta a chiarire
A Milano, ampia eco ha avuto un progetto di co-programmazione, poi sfociato in un’iniziativa di co-progettazione. Gli Hub di quartiere contro lo spreco alimentare, nati nel 2019 dalla collaborazione tra il Comune di Milano, Fondazione Cariplo, Assolombarda, Politecnico di Milano e diversi enti del Terzo settore, hanno raccolto e ridistribuito a persone in difficoltà cibo in eccedenza proveniente da diversi enti e imprese. L’iniziativa si è aggiudicata l'Earthshot Prize, con 1 milione di sterline che la Royal Foundation del Principe William assegna ogni anno. Gli hub sono stati fondamentali durante e dopo la pandemia: senza, le conseguenze sarebbero state certamente più gravi. La co-programmazione ha permesso di individuare i bisogni per la gestione dello spreco alimentare (per esempio, i maggiori spazi per la logistica) e, nel contempo, selezionare le diverse opzioni per investire efficacemente le risorse economiche ottenute dal Comune di Milano (per esempio, l’individuazione di un’area di stoccaggio comune). Alla fase di co-programmazione, è seguita (1) la pubblicazione dell’avviso di una procedura di co-progettazione per “mettere a terra” le azioni individuate e (2) l’individuazione dei soggetti ammessi alla collaborazione con la pubblica amministrazione nei tavoli di lavoro.
L’esperienza pratica sta mostrando un diffuso ricorso allo strumento della co-progettazione da parte delle pubbliche amministrazioni. Molto più contenuto sembra essere, invece, l’avvio di percorsi di co-programmazione. Nondimeno, la bontà dei fondamenti teorici e le esperienze virtuose che confermano le potenzialità della nuova “via” sono elementi sufficienti per un deciso cambio di passo.
*di Andrea Perrone