L’esperienza di applicazione degli strumenti collaborativi previsti dall’art 55 del codice del Terzo settore sta diventando lentamente un oggetto della ricerca empirica. Dopo l’entusiasmo iniziale con cui i commentatori si sono soffermati a sottolineare soprattutto gli elementi di novità sotto il profilo giuridico e costituzionale della norma, si è entrati ora in una fase più matura di studio dei processi e dei risultati del nuovo welfare collaborativo. Diversi gruppi di ricerca sono attivi sul campo e si possono avanzare, in base alle evidenze empiriche che si stanno lentamente cumulando, alcune prime considerazioni su come le nuove procedure sono implementate e con quali esiti.
Il quadro come spesso accade per ogni riforma importante è caratterizzato da luci e ombre. L’aspetto positivo è che il ricorso agli strumenti collaborativi sta aumentando velocemente e a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2020 in modo fino a ora esponenziale e che molte amministrazioni hanno iniziato a discutere di amministrazione condivisa.
A fianco di questi elementi chiaramente importanti si registrano tuttavia anche diverse criticità.
Innanzitutto, è abbastanza evidente come l’applicazione dell’art. 55 sia orientata più alla soluzione di problemi contingenti che non a ridefinire un orizzonte strategico di policies a livello territoriale. Le co-programmazioni che costituiscono il terreno privilegiato per l’analisi dei bisogni e per delineare obiettivi e priorità di intervento hanno una diffusione estremamente limitata (i procedimenti di co-programmazione sono in numero minimo rispetto alle co-progettazioni). Le coprogettazioni servono di conseguenza ad affrontare problemi meno strategici e prevalgono non di rado tra le motivazioni ad adottare questo strumento esigenze molto contingenti come evitare la rotazione degli affidatari dei servizi previste dal codice degli appalti, oppure arginare gli effetti della competizione proveniente da soggetti extraterritoriali sui precari equilibri politici del welfare mix locale. Le potenzialità dell’art. 55 risultano di conseguenza sotto questo profilo ancora ampiamente da sviluppare.
Questo compito chiama in causa, in primo luogo, la capacità di pensiero strategico delle amministrazioni pubbliche, da un lato, e del Terzo settore, dall’altro (Fazzi, 2023). L’amministrazione condivisa è un approccio molto esigente sotto questo profilo e molte amministrazioni pubbliche pagano pesantemente il disinvestimento nel settore del welfare locale degli ultimi venti anni. Mentre ci sono alcune eccellenze specie al centro nord, al sud e anche in molte amministrazioni periferiche delle altre regioni, la situazione è precaria e appare molto difficile pretendere da enti in sotto-organico e sommersi da pratiche burocratiche di evolvere un pensiero che vada oltre la gestione delle emergenze quotidiane. Gli stessi enti del Terzo settore sono chiamati a gestire problemi contingenti come il turnover e la ricerca di personale, la scrittura di progetti per recuperare nuove risorse, la gestione delle emergenze di servizio che tolgono tempo e interesse rispetto a ragionamenti di medio lungo periodo. Il pensiero strategico è dunque in generale debole e questo è un fattore che inevitabilmente comprime le potenzialità che possono essere assunte dalla co-progettazione.
L’applicazione delle co-progettazioni paga le configurazioni assunte nel tempo dalle pubbliche amministrazioni e dal Terzo settore anche da altri punti di vista.
Il settore pubblico è abituato a operare con una cultura fortemente burocratica e gerarchica che è per molti verso l’opposto di ciò che serve per governare relazioni collaborative che richiedono flessibilità procedurale e interpretazione delle norme. Molti enti si limitano per esempio a pubblicare gli avvisi di co-progettazione sugli albi pretori come se si trattasse di normali bandi di gara con il rischio che a presentare proposte siano solo gli enti del Terzo settore abituati a cercare bandi di appalto, mentre le stesse sessioni di lavoro sono non di rado gestite come una tipica attribuzione di incarichi per via gerarchica da parte del dirigente pubblico.
Il Terzo settore a sua volta porta con sé le logiche competitive e di frammentazione che ne hanno connotato la crescita degli ultimi quindici anni. A molti avvisi di coprogettazione non rispondono reti coese di enti uniti dalla volontà di affrontare problemi condivisi, ma vere e proprie cordate che concorrono tra loro per essere selezionate come partner delle coprogettazioni. In particolare, questo fenomeno è visibile nelle aree dove il welfare mix è caratterizzato storicamente da processi concorrenziali e dove il collante della collaborazione è stato eroso da dispute e scontri anche molto accessi. La competizione esclusa per legge rischia dunque di rientrare in campo nella costruzione degli interventi con dinamiche meno esplicite, ma non per questo meno problematiche e conflittuali. Inoltre, è piuttosto evidente il proseguimento della frattura storica tra cooperative sociali ed enti di volontariato e tra grandi e piccole organizzazioni. Le co-progettazioni con più alti budget tendono a essere presidiate in modo piuttosto marcato da enti strutturati e professionali con un ruolo marginale degli enti più piccoli e di volontariato che sono invece più attivi e presenti nelle procedure con più bassa entità economica.
Il campo che si presenta più problematico per dare gambe alle co-progettazioni è quello delle risorse. La struttura dei finanziamenti ingloba una serie di assunti che per molti enti del Terzo settore e in particolare quelli con dimensione economica e occupazionale più marcata costituiscono dei “vulnus” molto rilevanti. L’impossibilità di maturare Iva a credito, per esempio, è già un limite non banale che paradossalmente costituisce un peggioramento rispetto a quanto accadeva con il regime degli appalti soprattutto per servizi e interventi di una certa entità economica. Inoltre, diverse pubbliche amministrazioni usano la co-progettazione come una sorta di merce per scambiare il non utilizzo del regime degli appalti in cambio di ribassi mascherati sul prezzo dei servizi. Le richieste di compartecipazione agli enti del Terzo settore sono anche distorte dalla difficoltà di capire che non è possibile rimborsare solo il puro costo del lavoro in termini di ore svolte (cosa che si avvicina pericolosamente a una vera e propria intermediazione di manodopera) e che gli enti del Terzo settore hanno anche costi indiretti di gestione che vanno computati nel costo complessivo degli interventi.
A fronte di queste difficoltà diffuse e nonostante le buone prassi che stanno prendendo forma in alcuni territori (De Ambrogio e Marocchi, 2023), sta emergendo sia a livello di enti pubblici, ma soprattutto del Terzo settore la tentazione di un ritorno al passato e di una rivalutazione del sistema delle gare.
Il ragionamento che sostiene questa idea si basa su tre punti principali.
Il primo riguarda il problema delle risorse e del rischio del mancato riconoscimento del ruolo imprenditoriale del Terzo settore. La paura è che si allarghi eccessivamente, anche per ragioni strumentali, un sistema di affidamenti mascherato che disconosce i costi sostenuti dagli enti del Terzo settore per finanziare le attività e che non riconoscendo una parte di utile per il lavoro svolto equipara le cooperative sociali e gli enti più strutturati al volontariato.
Il secondo motivo per cui si inizia a pensare sia meglio tornare alle gare e alle procedure competitive è che la co-progettazione è spesso caotica e onerosa in termini di tempo e impegno, le procedure non sono chiare e espongono a rischi di ricorsi e contestazioni, e che i funzionari pubblici rischiano di usare in modo inappropriato e rigido il nuovo strumento. Infine, e non da ultimo, il sistema degli appalti ha da un certo punto di vista permesso al Terzo settore più strutturato di assumere dimensioni occupazionali ed economiche rilevanti e questo comporta anche un effetto a catena di sostegno delle centrali di rappresentanza che usufruiscono per il loro finanziamento delle quote dei bilanci delle associate. Le co-progettazioni rischiano di mettere un freno a queste dinamiche di sviluppo del Terzo settore e tendono pertanto a essere percepite con sospetto da parte di chi beneficia anche indirettamente di tale sistema.
Il grande problema del ritorno agli appalti nonostante la legittimità di alcune preoccupazioni è quello tipico del cane che si morde la coda. Se l’introduzione dell’art. 55 appare in molti contesti faticosa e non priva di contraddizioni, la responsabilità è solo in parte della normativa. La maggior parte dei problemi che si rilevano dalla ricerca sono da attribuirsi a effetti marcati di dipendenza dal percorso. Le scelte di policy, legislative e di definizione dei sistemi di regolazione del welfare mix passate definiscono una serie di vincoli operativi, finanziari e non da ultimo culturali che spiegano una parte rilevante delle difficoltà di decollo della riforma. Per esempio, dopo venti anni di disinvestimento nelle politiche del welfare locale, molte amministrazioni pubbliche lavorano con organici ridotti al minimo, con scarse competenze e quindi con una sostanziale incapacità di innovare il proprio modo di operare, che è uno dei primi requisiti per passare da un sistema di government gerarchico burocratico tradizionale verso un nuovo modello di governance. In modo analogo, le difficoltà del Terzo settore nel costruire piattaforme territoriali collaborative e inclusive dipendono dal modo con cui sono stati affidati i servizi attraverso canali di accesso che hanno marcato il sospetto e la concorrenzialità invece che la trasparenza, la fiducia e la collaborazione. Sono le gare al massimo ribasso ad aver fatto emergere, per esempio, modelli di impresa sociale orientati alla produttività prestazionale e scarsamente attenti a costruire legami con le comunità locali e a investire sulla crescita delle stesse.
Auspicare il ritorno agli appalti in nome dell’idea che “si stava meglio quando si stava peggio” può essere dunque forse comprensibile, se si considera che il sistema delle gare ha portato anche vantaggi specifici a alcuni soggetti. Nell’economia complessiva del welfare locale, tuttavia, è chiaro che si tratterebbe di una strategia kamikaze destinata a esasperare all’estremo le contraddizioni esistenti: frammentazione dell’offerta, impossibilità a costruire filiere di servizi territoriali, pressione insostenibile sulla produttività, marginalizzazione del contributo della società civile e degli attori della comunità.
Piuttosto che avanzare ipotesi di ritorno al passato, converrebbe invece prendere sul serio il percorso di sperimentazione della riforma. Prendere sul serio significa abbandonare i toni enfatici e retorici con cui è stato salutato da molti il nuovo welfare collaborativo. Nessun processo di cambiamento è indolore ed è fondamentale analizzare bene i presupposti da cui si parte e gli elementi di ostacolo e di facilitazione che il cambiamento può incontrare. Da questo punto di vista, ciò che appare necessario è l’intensificazione della ricerca su cosa sta realmente accadendo sui territori (Fazzi, 2022). Alcune amministrazioni, per esempio, si sono accorte della difficoltà di gestire da un punto di vista metodologico i processi di selezione delle proposte agli avvisi pubblici o la gestione delle sessioni di lavoro e hanno iniziato a introdurre correttivi volti a migliorare l’efficacia degli interventi. In altri casi a livello sia regionale che comunale è stato affrontato il problema delle richieste di contribuzione economica al Terzo settore per partecipare alle coprogettazioni iniziando a definire limiti e avviando quindi un dibattito sul tema. In altri casi, a livello locale si sono costruite alleanze tra enti locali e fondazioni per finanziare le co-progettazioni introducendo come criterio per la presentazione e valutazione delle proposte la costruzione di piattaforme collaborative tra gli enti del Terzo settore locali.
Si tratta di interventi migliorativi inevitabilmente frammentati, che indicano tuttavia come la strada più razionale per accompagnare una riforma sia quella dell’introduzione di miglioramenti e correttivi progressivi che, una volta sperimentati con successo, dovrebbero essere utilizzati per ridefinire le politiche di sistema. Il processo di introduzione delle agende collaborative richiede una sistemazione di obiettivi, metodologie e strumentazioni largamente da costruire e concettualizzare (Borzaga e colleghi, 2023).
L’altro aspetto che dovrebbe diventare oggetto di discussione dopo il primo periodo di introduzione degli strumenti collaborativi è quello più generale delle politiche del welfare locale, e su questo punto effettivamente sarebbe essenziale che i vari attori istituzionali, politici e di rappresentanza si confrontassero in modo onesto e trasparente (Ascoli e Campedelli, 2021). Così come è accaduto con la diffusione degli appalti a basso costo con i relativi effetti distruttivi della qualità dei servizi, sulla capacità di attrazione di lavoratori motivati e formati e sulla tenuta delle relazioni collaborative locali, anche nel caso dei problemi riscontrati con l’applicazione dell’art. 55 si palesa chiaramente a monte di tutto il problema delle politiche e degli investimenti per il welfare locale. Fare politiche significa ragionare sul medio lungo periodo e non solo sul contingente e vuol dire che i temi del welfare devono avere una priorità nell’agenda e nei bilanci delle pubbliche amministrazioni. È più che giusto coinvolgere il Terzo settore e la società civile più in generale nella condivisione di obiettivi e risorse per lo sviluppo di nuovi interventi e servizi. Tuttavia, questo deve essere fatto in modo non strumentale. Nella logica della complementarietà, pubblico e Terzo settore contribuiscono alla soluzione dei problemi sociali ciascuno con proprie responsabilità e risorse. Chiedere a uno dei soggetti in causa di partecipare con un impegno superiore alle sue capacità e ai suoi compiti istituzionali non è solo un errore, ma un vero e proprio crimine perché la conseguenza è che ci saranno vittime. Se si stressa in modo improprio, per esempio, la capacità del Terzo settore di contribuire con risorse proprie alla realizzazione degli interventi, l’effetto più evidente sarà una reazione di avversione verso il nuovo modello di lavoro oppure, peggio, una adesione in base a decisioni prive di alternative che portano a preferire l’esecuzione di lavoro sotto costo al pericolo di essere esclusi totalmente dal sistema. Con meno risorse, inoltre, la qualità dei servizi è destinata a scadere con un danno diretto per i cittadini e gli utenti dei servizi.
Il punto dirimente è che il welfare collaborativo, così come il welfare locale in generale, per esprimere tutte le sue potenzialità, necessita di politiche di finanziamento pubblico non restrittive, ma espansive. Il contributo del Terzo settore è aggiuntivo e permette di accelerare e migliorare la capacità di risposta i bisogni, ma non può essere sostitutivo di un impegno che le istituzioni devono continuare a garantire. Le evidenze empiriche mostrano come solo in questo modo si può creare quel clima di fiducia e collaborazione che spinge anche gli altri soggetti ad attivarsi per contribuire ciascuno con le proprie capacità alla costruzione di interventi e servizi realmente migliorativi e innovativi. Se una azione di protesta e di lobbying per migliorare il sistema va attivata bene, sarebbe meglio che il bersaglio fosse quello giusto: non un ritorno a un passato che ha generato mille problemi, ma un rilancio verso un futuro diverso in cui le responsabilità diventano collettive in forza dell’assolvimento dei reciproci impegni e doveri.
*di Luca Fazzi